Grazie al lavoro di New Humanity e di tutta la comunità di Ho Nar, sabato 13 luglio si è tenuta una grande festa per l’inaugurazione del nuovo asilo.
La struttura, operativa da marzo con l’inizio del nuovo anno scolastico, è stata ora definitivamente portata a termine.Gli abitanti del villaggio, da cui era partita la richiesta per la mancanza totale di servizi nell’educazione prescolare, hanno continuato a contribuire e supportare questo progetto, che adesso è diventato realtà!
Oggi l’asilo è una realtà capace di accogliere 130 bambini dai 3 ai 5 anni nel villaggio di Ho Nar e di altre località nelle vicinanze.
Redazione
Dalla Birmania eravamo in attesa della buona notizia e dopo i mesi delle pioggie… è arrivata, insieme alla bella stagione! Così nel piccolo villaggio di Honar, nello Shan State meridionale, hanno preso il via i lavori per la costruzione di una scuola materna comunitaria, sotto la guida di New Humanity.
Comunitaria non solo perché la richiesta è giunta direttamente dalla comunità ma anche e soprattutto perché coinvolge e coinvolgerà la comunità tutta nella realizzazione e gestione dell’asilo nell’ottica della sua completa sostenibilità.
Il sostegno della Fondazione Francesca Pecorari Onlus si rivolge alla costruzione materiale dell’edificio: un ambiente funzionale e sicuro dove i diritti inviolabili del bambino -salute, istruzione e gioco – vengano rispettati e difesi.
Siamo orgogliosi di annunciare che abbiamo vinto l’Oscar Green Fvg 2018 della Coldiretti nella categoria Noi per il sociale con Fatto in Paradiso, il vino della solidarietà che Lis Neris destina alla onlus Fondazione Francesca Pecorari. La premiazione regionale si è svolta martedì scorso nel suggestivo contesto della Lataria dei Magredi, l’ex caseificio ristrutturato, oggi agriturismo, a Vivaro, nella pedemontana pordenonese. A ritirarlo Federica Pecorari (in foto). Ma vediamo di cosa si tratta. Oscar Green è il premio promosso da Coldiretti Giovani Impresa e patrocinato dal ministero delle Politiche agricole, giunto quest’anno alla dodicesima edizione, che premia l’innovazione giovanile in agricoltura. Sei i progetti di Oscar Green che a livello regionale hanno ottenuto questo riconoscimento. Premiati, tra una cinquantina di partecipanti, anche le aziende Fanna Marco di Moimacco (categoria Impresa 3.Terra), Orto in tasca di Udine (Campagna Amica), Green in Box d Latisana (Creatività), Sincero-Rete d’impresa (Fare Rete) e agriturismo Silicanum di Gorizia (Sostenibilità). “Siamo riusciti anche quest’anno a promuovere l’agricoltura sana e di qualità del nostro territorio, dando voce a giovani imprenditori capaci e meritevoli”, dice il presidente di Coldiretti regionale Michele Pavan.
Il premio Noi per il sociale è una risposta ai problemi della persona e della collettività. Nel caso specifico, il vino diventa volano per la solidarietà, una forma di riconoscenza verso chi effettua una donazione alla fondazione. Tanta strada è stata fatta con la costruzione di scuole e asili in Myanmar, India e Uganda, ma tanta strada è ancora da fare. E la parola è ‘insieme’. “Dedico questo premio a mia sorella Francesca, che rivive in tutti i nostri progetti”, dice Federica Pecorari, visibilmente emozionata. “È una grande soddisfazione l’essere riusciti a gettare luce sul lavoro della onlus con un canale diverso dai nostri abituali, quello delle idee innovative, della creatività di idea, di prodotto e di metodo, della partnership, della valorizzazione del Made in Italy attraverso il rapporto tra impresa e consumatori”. Federica è in procinto di partire per un tour che la vedrà impegnata nella promozione dei suoi vini per tre settimane fra Europa, Stati Uniti e Asia, ma con un occhio rivolto alla fondazione anche da lontano. “Con il passare degli anni cresce l’attenzione verso il nostro progetto solidale. La gente ci ascolta, vuole capire per saperne di più. Chi viene in azienda a San Lorenzo Isontino spesso e volentieri è incuriosito da Fatto in Paradiso, dal suo saper raccontare un’altra storia, una storia diversa, che parla tutte le lingue del mondo. Un vino che è sigillo a garanzia dell’autenticità della nostra azione nel campo della solidarietà e sulla cui qualità garantisce Lis Neris. L’impegno è lo stesso che mettiamo nel lavoro”. Continua: “È una onlus che ci assomiglia, siamo noi con i nostri sogni e i nostri obiettivi, seguendo la politica dei piccoli passi concreti. Spendendo la nostra credibilità e quella dei nostri collaboratori. Il bene è tangibile, non è un concetto astratto”. E a proposito della vendemmia, che è iniziata in anticipo rispetto alla precedente, spiega: “È un’annata molto interessante, firmeremo vini d’eccellenza. Questo grazie al clima caldo con serate fresche ideale per la giusta maturazione delle uve”. Quindi, anche un grande Fatto in Paradiso per brindare a nuovi inizi.
CON IL PROFESSOR ANDREA RICCARDI AL FESTIVAL DELLA MENTE DI SARZANA
A Sarzana al Festival della Mente, giunto quest’anno alla quindicesima edizione, abbiamo incontrato il professor Andrea Riccardi, colui che cinquant’anni fa, nel 1968, è stato tra i fondatori di un sogno: la Comunità di Sant’Egidio, a Roma. Un incontro che ci ha emozionati e una lectio magistralis che ha ricevuto tantissimi meritati applausi. Riccardi, in libreria con Il professore e il patriarca. Umanesimo spirituale tra nazionalismi e globalizzazione (Jaca Book), ha invitato il pubblico a riflettere sul senso della comunità dal palco di un festival che si inserisce nel rinnovamento culturale del paese puntando su innovazione e creatività. Un’analisi di grande realismo dei cambiamenti in atto nella società, scevra di politichese, che parte dai bisogni della gente, dalla comunità intesa come ‘noi’ aggregante al di là dei particolarismi, unica realtà in grado di ricucire una società ferita e disgregata.
Il nostro primo incontro con la Comunità di Sant’Egidio risale al 2003 a Wine for Life, evento che allo scorso Vinitaly ha festeggiato 15 anni di vita. Con Wine for Life il vino diventa solidarietà, in questo caso specifico per la lotta contro l’AIDS in Africa, a sottolineare un’Italia che crea valore e valori. Ma è dal 2008 che la nostra fondazione appoggia concretamente Sant’Egidio per la realizzazione di progetti scolastici ed educativi in Uganda. Lo scorso 5 febbraio, inizio del nuovo anno scolastico nella Scuola della Pace del campo profughi di Nyumanzi, vicino Adjumani, è stato inaugurato un altro blocco con quattro aule in muratura per offrire istruzione a bambini e ragazzi scappati dalla guerra civile del Sud Sudan. Una vera e propria esigenza vista la crescente domanda di iscrizioni nel 2018 (oltre 900). Basta considerare che più di un milione di rifugiati su due milioni e mezzo è ospitato in Uganda. “L’Uganda è un paese importante, accoglie tanti profughi. L’apertura di questa scuola crea sinergie tra realtà diverse che mostrano la volontà di non abbandonare l’Africa a se stessa. Parliamo tanto di migranti ma oggi il vero problema non è fermarli ma agire in Africa concretamente, affinché possano trovare attraverso l’educazione una vita degna. I profughi e i loro figli spesso sono profughi in e da se stessi. Sono storie di persone nel mondo che hanno conosciuto solo i campi di raccolta. Quindi diamo un futuro”, commenta Riccardi. “Conosco la vostra fondazione: è una storia molto bella, profonda, tipicamente italiana, ma che diventa universale. E sono contento di questa collaborazione perché è la sinergia tra realtà che non guardano solo all’interno della società italiana ma hanno uno sguardo sul mondo”.
LA COMUNITÀ IERI E OGGI. “Il vostro accorrere qui, a Sarzana, la vostra attenzione, le vostre storie diverse ci fanno sentire l’uno il bisogno degli altri, ci fanno incontrare, discutere. Viviamo una tensione comunitaria, uno sgretolamento del tessuto sociale. Da qualche tempo si esalta la libertà dell’individuo a scapito della dimensione collettiva. È molto importante per me parlare di comunità e sarebbe stato facile parlare solo di Sant’Egidio. Ma voglio provare a tracciare un percorso più ampio, perché comunità vuol dire tante cose, è una storia lunga come l’Umanità”. Inizia così la lezione di Andrea Riccardi. “Oggi più che mai c’è bisogno di comunità, di dramma, passione, partecipazione. Ma quale comunità? Sant’Egidio è la comunità che ho contribuito a fondare, a far crescere. È un’esperienza particolare, di solidarietà con i poveri, una comunità di destino di uomini e donne radicati in tante parti del mondo, anche a contatto con situazioni di dolore, di guerre. Poi ho pensato che avrei giocato facile. Però questa memoria dei cinquant’anni di Sant’Egidio mi ha fatto tornare al ’68, mezzo secolo fa. Allora comunità era parola, sogno, realtà e la comunità era un’esigenza molto alla moda, nei giovani dei paesi occidentali c’era una spinta alla socializzazione comunitaria. Mio padre si chiedeva perché noi studenti ci muovessimo sempre in branco. Io gli rispondevo ‘papà non è un branco è una comunità’. Lui mi guardava con aria dubitosa e non rispondeva. Noi ce la siamo conquistata la libertà per uscire dal branco. Ma non parlerò a lungo del ’68, abbiamo fatto convegni per questo. Il ‘68 è andato al di là dell’evento, è divenuto una categoria. Cinquant’anni fa comunità, comune, collettivo, vita in comune, assemblea, comitati erano un fascio di esperienze che venivano vissuti con entusiasmo. Esperienza comunitaria, ispirazioni comunitarie hanno caratterizzato quella generazione anche come una rivolta, soprattutto contro le istituzioni della tradizione: scuola, università, famiglia, forze armate, polizia, politica, chiesa e via dicendo. Era anche una rivolta contro l’individualismo borghese carrierista nel sogno, non so se realizzato ma almeno conclamato, di un nuovo ‘noi’, diverso da quello ereditato dalla storia. Da quel ‘68 sono nati movimenti molto contraddittori. Dall’altra parte il ‘68 è stato la festa di un nuovo individualismo: nell’università La Sorbona di Parigi, epicentro della contestazione, su un muro si leggeva ‘noi avremo un buon maestro quando io sarò maestro di me stesso’. Che è cosa di più dell’individualismo. Ma il ‘68 era una spinta vitalistica un po’ arrogante, un po’ ingenua che non sentiva il bisogno di spiegarsi con le categorie culturali della società di allora. Uno slogan in una scuola la diceva lunga: “io ho molto da dire ma non so che cosa”. Questo generava nella generazione più adulta uno sconcerto. Eppure c’era una volontà di afferrare il futuro. Lo slogan più diffuso era ‘siate realisti chiedete l’impossibile’. E gli slogan erano bellissimi. Tutto questo per ricordare che 50 anni fa si affermava prepotente un ‘noi’ collettivo e comunitario che si contrapponeva alle istituzioni rimproverando il burocraticismo. Allora parlare di comunità era miele. In mezzo secolo abbiamo assistito a una grande distanza, non solo politica, culturale, ma soprattutto umana, una distanza profonda. Oggi abbiamo meno rete sociale umana e più web”.
Non mancano i riferimenti all’amico Vincenzo Paglia e al suo libro Il crollo del noi (Laterza). La riflessione si sposta sull’inversione di tendenza che si è verificata in mezzo secolo dalla comunità all’individuo, sul crollo dei legami umani, sul ‘noi’ indebolito dalla globalizzazione, sul vivere in una stagione di individualismo. Per Paglia viviamo il tempo dell’Egocrazia, generatore di vuoto perché l’uomo non è fatto per stare da solo. “Non avevo ancora letto il libro ma gli ho detto che il titolo è bellissimo, e il titolo è importante”, continua Riccardi. “La diffusa voglia di comunità, di socializzazione comunitaria non esiste perché viviamo in una marcata stagione di individualismo, ma non solo in Europa. Se pensiamo a un continente che per storia individualista non è, l’Africa, dove la famiglia è forte, ugualmente si sta verificando un fenomeno di frattura dei legami, con caratterizzazioni diverse ma in sostanza è così. Lo psicanalista Luigi Zoja ha scritto un libro piccolo ma intelligente dal titolo La morte del prossimo, dove si riflette sul fatto che negli ultimi 20 anni il concetto di prossimo si è allargato. Gli orizzonti sono divenuti globali. Oggi tutti sono prossimi anche se lontani, perché con i social media soprattutto, ma anche con gli altri mezzi di comunicazione, tutti entrano nelle nostre vite in ogni momento. Contestualmente, però, si sono indebolite le relazioni stabili, si sono erosi i contorni comunitari della vita. Il mio prossimo si è delocalizzato. Siamo uomini e donne spaesati. Gli uomini della mia generazione, quella dell’esodo, ossia del mondo pre-globalizzazione al mondo globalizzato, possono misurare il percorso di questo spaesamento. Ma chi è il mio prossimo? È una domanda che si trova nel Vangelo. È un mondo con poco prossimo vicino e con tanti lontani che si fanno prossimi. Zoja ha ragione quando afferma che i legami familiari, comunitari e ambientali si indeboliscono: è l’allentamento dei diversi tipi di prossimità. Nel mondo pre-tecnologico la vicinanza era fondamentale. Ora domina la lontananza, il rapporto mediato e mediatico, la mancanza di contatto”.
Altro focus lo slum e i pericoli nelle periferie del mondo. “Vorrei soffermarmi sulla crisi del legame comunitario come limite doloroso della nostra società. Non è solo un limite doloroso. Si discute molto in questi ultimi anni della radicalizzazione dei giovani islamisti. Io penso che ci sia anche una radicalizzazione dei giovani di origine europea, come il neonazismo mostra. Il fondamentalismo è una malattia che attraversa tutto il nostro mondo, non è solo la malattia di un aspetto o di una religione. I giovani figli di musulmani nati nei nostri paesi sono sottoposti a una condizione particolare ma il vero problema è quello delle periferie, che sono la terra della radicalizzazione, e la radicalizzazione oggi non solo avviene attraverso la rete sociale islamica ma sul web. Allora penso che quando parliamo di radicalizzazione, di sicurezza occorra guardare le periferie perché, è difficile dirlo in questa meravigliosa Sarzana, sono gran parte del nostro mondo. Nel 2006 è arrivato qualcosa che nessuno ha segnalato: per la prima volta nella storia dell’Umanità la popolazione mondiale ha cominciato in maggioranza ad abitare le città. Prima il mondo era campagna. Ma cosa vuol dire un mondo urbano recente? Vuol dire un universo di periferie, gli slum, abitazioni improprie, gente arrivata da poco, spesso senza legami. Sapete quanta gente vive negli slum? Il 31% , un terzo della popolazione mondiale vive in queste periferie casuali. La cosiddetta slumizzazione in Africa subsahariana arriva al 72%: i legami tradizionali si sono rotti, sono mondi senza comunità. Ma vorrei parlare di un’altra periferia più vicina a noi, quella di Roma, che ho seguito dagli inizi della Comunità di Sant’Egidio. Ho conosciuto la periferia degli anni ‘60 descritta da Pasolini, le borgate, un mondo povero, duro, però non era senza reti, che allora erano create dal volontarismo politico comunitario, non solo dai gruppi del ‘68. I partiti politici, primo il partito comunista, organizzavano la vita come un modello capillare che nelle periferie romane era secondo solo alle parrocchie: c’erano i sindacati, comitati di ogni tipo, in quel quadro povero c’era un tessuto comunitario. Questo tessuto negli ultimi due decenni si è dissolto. Eppure oggi le nostre periferie vivono l’impatto con il fenomeno migranti, e qui la sfida dell’integrazione. Ma l’integrazione è fatta dalle comunità più che dalle istituzioni o da realtà costruite senza volto. Dobbiamo rammendare le nostre periferie da un punto di vista umano altrimenti saranno problemi gravi. A Roma nel vuoto sociale si sono inserite le reti mafiose. La banlieue parigina è un deserto di legami comunitari”.
Il mondo globalizzato. “L’ottimismo ingiusto verso la globalizzazione ha lasciato spazio a un pessimismo diffuso e ingiusto, fatto di tante paure che accompagnano l’uomo e la donna globale. Oggi abbiamo paura della storia, di questo mondo mondializzato dove può arrivare uno tsunami che travolge i nostri universi privi di protezione. E infatti la questione della sicurezza è diventata prioritaria in ogni proposta politica che si sappia vendere agli elettori. Chi gira il mondo, chi frequenta grandi città del Sud del mondo quando torna in Italia si accorge che nonostante i problemi che ci sono le nostre sono città sicure. La paura è in noi. La paura della storia si mangia le risposte. E giocare la chiave della paura in ogni messaggio paga alla breve ma non alla lunga. Abbiamo bisogno di individuare dei nemici, oggi può essere l’immigrato domani una classe politica dopodomani potrebbero essere i giovani o gli anziani. Una delle espressioni più ricorrenti in tutta la Bibbia è ‘non abbiate paura’. La globalizzazione non l’abbiamo vissuta responsabilmente, le nostre vecchie reti si sono dissolte. Bisogna rispondere alle paure dell’uomo globale, ma la risposta non è fare una comunità contro”, spiega Riccardi. E poi il riferimento al pensatore ebraico Martin Buber e alla tensione comunitaria degli anni ‘30 di fronte al totalitarismo, secondo cui la comunità non è questo o quel modello ma una dimensione da coltivare, un tessuto di reciprocità che può essere ricostruito attraverso una relazione che si fonda sulla partecipazione, fondamentale per rendere l’io consapevole di non essere individuo ma persona. È la persona che costituisce un legame con gli altri. Secondo Buber la nostra epoca – “epoca senza casa” – ha dimenticato il fondamento relazionale. Ed ecco la domanda: “Che ne è dell’uomo? Che ne è della comunità? Che ne è dell’unico spazio possibile dell’uomo con l’uomo?”. La comunità, quindi, come soluzione al problema dell’uomo. E come si fa la comunità? Secondo Zygmunt Bauman bisogna ‘fare il possibile e desiderare l’impossibile’. Continua Riccardi: “È un sogno antiglobalista? Dobbiamo andare a vivere in qualche parte isolata nel mondo? Dobbiamo trovare più che risposte incentivi per vivere con responsabilità comunitaria il nostro tempo, e di questo ringrazio il festival che ci ospita. Nella storia di fronte al caos uomini e donne hanno sempre cercato di realizzare una comunità. Non c’è bisogno di fuggire. Bauman dice che c’è voglia di comunità intorno a noi. Dobbiamo essere meno vittimisti, anche se esistono dei problemi. Comunità non è solo un’eredità del passato ma qualcosa da reinventare: è un sogno, un amore, un legame, un tessuto di reciprocità, un modo di vivere con gli altri. Oggi più che mai è l’anziano il rivelatore del bisogno di comunità. I poveri sono spesso soli”.
E i libri sono i grandi testimoni della nostra epoca. Un’altra lettura consigliata da Riccardi è La solitudine del cittadino globale, di Zygmunt Bauman, la globalizzazione che porta alla fine del sociale. Il focus del libro è sulla solitudine dell’uomo comune, su una socialità dai contorni sfocati, sulle politiche neoliberiste che hanno portato alla disgregazione del tessuto sociale esaltando la dimensione individuale e annullando la comunità reale. Per porre un freno a questo stato di cose per Bauman bisogna ritrovare lo spazio in cui pubblico e privato si connettono: l’antica agorà e il farsi la libertà individuale impegno collettivo. L’assenza di limiti e il disinteresse per il bene comune porta alla paralisi della politica, che deve ritrovare il suo spazio, ma non concentrando l’inquietudine solo sul tema della sicurezza personale. Conclude Riccardi: “Uno dei più grandi storici, Paolo Prodi, spiegava la storia dell’Europa come una tensione rivoluzionaria. L’Europa ha sempre avuto una tensione che ha spinto gli europei a uscire da sé. E uscendo da sé sono stati conquistatori, commercianti, mediatori, missionari… La tensione si è spenta, l’uomo solo non vive più tensioni larghe perché queste hanno bisogno di essere condivise. Emmanuel Mounier diceva che ci vuole una rivoluzione personalista e comunitaria. Per abitare la globalizzazione c’è un diffuso bisogno di comunità. Bisogna partire dall’individualismo, dall’’io’ col sogno del ‘noi’. La vita cambia per processi sociali che cominciano tra pochi e scoppiano tra molti”.
LA COMUNITÀ E IL SUO SIGNIFICATO AL FESTIVAL DELLA MENTE DI SARZANA
Vi abbiamo parlato della collaborazione, e quindi del nostro impegno, con la Comunità di Sant’Egidio in occasione della festa di compleanno in ricordo di Francesca. L’impegno a intervenire con progetti educativi nelle aree più povere dell’Africa. Andrea Riccardi, storico e saggista fondatore della Comunità di Sant’Egidio, partecipa venerdì prossimo al Festival della mente di Sarzana (La Spezia), che si svolgerà dal 31 agosto al 2 settembre. Un evento culturale di primo piano con oltre 60 relatori italiani e internazionali, 39 appuntamenti tra conferenze, laboratori, spettacoli e lectio divulgative aventi come focus temi sociali. Al centro la comunità in senso generale e il suo significato, partendo dall’antichità. Un focus che anche per noi, che siamo una onlus che opera nel sociale, è importante. Come è importante una riflessione sul Noi che completa l’Io: è nel gruppo che l’Io si realizza e trova il suo senso. Comunità, da communitas, rimanda a una legge della cura reciproca. Possiamo ipotizzare un ritorno alla comunità, oggi, in piena globalizzazione e perdita di intelligenza collettiva? L’intervento di Andrea Riccardi si intitola “Comunità o l’eclissi del noi” e ve ne parleremo dettagliatamente nel prossimo articolo. Le domande che ne scaturiscono sono diverse. Comunità è una risposta concreta all’origine di reti e solidarietà? È ricordo nostalgico del passato o visione del futuro? Cosa significa oggi comunità, quando le popolazioni si spostano e nascondono inedite convivenze tra persone di storia, etnia, religione diversa? Ad Andrea Riccardi spiegarlo nella sua lezione.
Vi segnaliamo alcuni fra gli altri interventi imperdibili. Jan Brokken, scrittore, giornalista e viaggiatore olandese partendo dall’analisi del suo libro Jungle Rudy discute su comunità e solitudine, della possibilità di rimanere se stessi in un mondo che obbliga alle relazioni, di avventura, viaggio, individualismo e condivisione sociale. Jan Goldin, professore di Globalizzazione e Sviluppo all’Università di Oxford, sposta il focus sul nuovo Rinascimento: i cambiamenti avvenuti nel Rinascimento sono paragonabili a quelli che stiamo vivendo con l’avvento di Internet e della digitalizzazione, con la sperimentazione nel campo della robotica, con il miglioramento della qualità della vita e l’aumento della sua aspettativa. Ma in tutto questo si annidano dei rischi sistemici per le fondamenta della comunità. La scrittrice Maryam Madjidi, iraniana, vincitrice del Premio Goncourt, incentra la sua lezione sulle radici ritrovate. Radici che possono essere fardello o risorsa inesauribile. Classe 1980, studi di Lettere alla Sorbona, viaggi tra la Cina e la Turchia, al ritorno in Francia si mette a insegnare francese ai detenuti. Altro intervento da non perdere è quello di Mario Cucinella, fondatore di uno studio di architettura con grande attenzione ai temi di sostenibilità e impatto ambientale degli edifici. Nel 2012 fonda Building Green Future, organzzazioe no-profit che si occupa di integrare architettura sostenibile ed energie rinnovabili per migliorare le condizioni di vita e l’accesso alle risorse nei paesi in via di sviluppo. Qui il focus è sull’architettura come azione politica e strumento di rilancio dei territori. Con la scrittrice pakistana Kamila Shamsie si parla di comunità musulmana e ci si interroga su fede, famiglia e società. Perché abbiamo bisogno di raccontare le storie antiche? Cosa ci insegna l’Antigone ai tempi dell’Isis? Durante il festival uno spazio sarà riservato anche alla Compagnia della Fortezza, il gruppo teatrale fondato 30 anni fa all’interno del carcere di Velletri da Armando Punzo, regista e drammaturgo. Attori sono i detenuti, cui il progetto culturale ha regalato una nuova vita all’interno di uno degli istituti di reclusione più duri, con pene dai dieci anni in su. A Punzo analizzare la comunità segreta e il teatro che crea una terza via: quella di una comunità libera in carcere. Con Massimiliano Valerii, direttore generale del Censis, si discute sui miti di oggi, su un immaginario che domanda di essere realizzato perché mette in circolazione sogni e desideri, spostando sempre più in là le frontiere del possibile.
Un festival da 15 anni dedicato alla creatività e alla nascita delle idee, per riflettere sull’attualità, sulla storia e sulle tendenze della nostra società. Già Aristotele definiva l’uomo “animale sociale”, ma è stato Zygmunt Bauman con il suo Voglia di comunità (Laterza) la fonte di ispirazione. Nel libro Bauman analizza la perdita dei confini dell’attuale società liquida e la conseguente difficoltà a conciliare sicurezza e libertà. Non mancano spazi dedicati ai più piccoli. Per la costruzione di comunità migliori bisogna partire dai bambini e con essi dall’idea di futuro. Bambini che sono protagonisti di laboratori per scoprire il valore della diversità. Saranno poi gli scienziati Carlo Alberto Redi e Manuela Monti a spiegare perché l’educazione all’altruismo garantisca lo sviluppo di una nuova democrazia, quella cognitiva.
Quando la Fondazione Francesca Pecorari è nata, nel 2003, l’obiettivo era rivolgere lo sguardo al Sudest asiatico, in particolare al Myanmar (ex Birmania), un paese che con le sue criticità politiche, sociali, culturali e i suoi oltre cento gruppi etnici aveva profondamente scosso Francesca durante uno dei suoi viaggi. Nei villaggi, soprattutto al confine con la Cina, abitati da tribù isolate e pericolose è estremamente complicato realizzare un progetto educativo per strappare i bambini da un futuro scontato: mercato degli organi da una parte, furti, criminalità e prostituzione minorile dall’altra. Ne parliamo con la scrittrice Mary Lynn Bracht, che ci fornisce uno spaccato della vita delle donne in un particolare periodo storico: la guerra di Corea del 1943. Nata in Texas da madre sudcoreana è autrice de Figlie del mare (Longanesi), best seller d’esordio tradotto in oltre diciotto paesi. Da Londra, dove vive, il suo sguardo sulla Corea e sul Sudest asiatico è estremamente realistico, crudo e mostra crepe non ancora sanate nel regime politico e culturale di questi paesi svelando una tragedia sconosciuta ai più: la guerra di Corea del 1943 e il dominio giapponese (che andava avanti dal 1905). La Bracht è cresciuta a stretto contatto con una comunità di donne emigrate dalla Corea del Sud. È proprio durante un viaggio nel villaggio dove nacque la madre che sentì parlare di confort women, del silenzio e della vergogna di donne vittime innocenti, della schiavitù sessuale. Ne uscirà un romanzo con protagonisti due sorelle, un soldato e una vita di abusi senza nessuna via di scampo: Hana, che vive in una società matriarcale dove è la donna a pensare al sostentamento della famiglia, viene catturata dai soldati giapponesi, deportata in Manciuria e imprigionata in una casa chiusa gestita dall’esercito. Il suo sogno tornare ad essere libera. “Il desiderio di queste ragazze strappate alle loro famiglie, che dall’oggi al domani non le vedevano più, era farla finita. Molte si suicidavano, se non morivano prima per malattie, per sottrarsi agli abusi”, racconta la Bracht. White Chrysanthemum è il titolo originale del libro, perché la madre di Hana gettò in mare proprio un crisantemo bianco, come si usa con i morti, quando la figlia fu rapita. Una situazione che fa capire quanto l’istruzione ovunque, ma soprattutto in questi paesi sia considerata come un diritto alla vita oltre che della vita. Un’istruzione scolastica che in Corea del Nord è politicamente orientata e vede il forte divario fra aree rurali povere e le grandi città. L’intervista offre spunti su cui riflettere. Della recensione del libro ne parleremo sul settimanale Famiglia Cristiana
Un libro-testimonianza per i giovani?
<<Volevo raccontare la guerra dal punto di vista delle donne per far capire, questo l’intento ambizioso, cosa avesse significato e significhi per loro la guerra, sopravvivere alla tragedia e la resilienza, offrendo uno spaccato della loro condizione in quel tempo. Sui libri si parla spesso di politica e di economia tralasciando l’aspetto femminile della vicenda: le donne hanno sopportato un peso enorme e hanno contribuito alla ricostruzione morale del paese. Un peso che per molto, troppo tempo si è taciuto. La mia motivazione principale era che non si perdesse il ricordo di quello che era successo durante la guerra a queste ragazze, molte erano bambine o poco di più, che non fossero dimenticate, che il loro vissuto non venisse buttato via con un colpo di scopa dalla storia che studiamo. L’obiettivo era parlare delle schiave sessuali per fare in modo che non uscissero dalla storia della Corea. Un modo romanzato per farci ricordare un fatto che se leggessimo solo sui libri tenderemmo a dimenticare. Qui ci focalizziamo su un aspetto che sui testi scolastici non è preminente, ma nella vita di queste donne lo è stato, eccome. Se insieme a tutto questo il mio romanzo serve anche come memoria e testimonianza per i giovani, lo considero un bel regalo. L’istruzione oggi è fondamentale per ripartire con un nuovo slancio>>.
Esiste una traduzione coreana de Figlie del mare? Glielo chiedo perché sarebbe buona cosa far entrare il romanzo nelle scuole…
<<Lo stanno traducendo ora. Molti giovani sono lontani dalla storia e, per ragioni anagrafiche, dalle dinamiche della guerra. Questo libro potrebbe arrivare dove un testo scolastico non riuscirebbe mai: a scuotere le coscienze, a creare una sorta di immedesimazione, a mostrare tutto l’orrore dell’occupazione giapponese. La sua funzione didattica in Corea e nei paesi connessi con la Corea sarebbe una vittoria per intere generazioni di donne. Moltissimi studenti di varie università in Inghilterra, in particolare a Londra, che sono coreani e si occupano di studi asiatici, la pensano come lei, ossia della necessità di un libro che possa servire come testo per imparare la storia, quella non raccontata>>.
Quanto ha influito nella stesura la comunità coreana in cui è cresciuta?
<<Il libro non sarebbe stato così realistico, crudo. Sono cresciuta in un ambiente pieno di donne come la mamma: erano sudcoreane, tutte avevano sposato militari americani. Ero immersa in questa cultura della sopravvivenza, della forza di donne che non avevano alcun tipo di possibilità nel loro paese perché erano le ragazze del dopoguerra di Corea, donne che si trovavano in un paese nel pieno della ricostruzione ma anche vittima di una dittatura molto dura dove non esisteva la libertà e non c’era spazio per le ragazze povere. Le persone come mia mamma sono state costrette a lasciare la loro patria, vuoi per indigenza vuoi perché volevano scoprire il resto del mondo: è così che sono diventate donne forti, motivate, si sono ricostruite una vita da un’altra parte. Questa loro forza mi ha sempre ispirata: da bambina ero molto interessata ad ascoltare la storia della loro infanzia rurale e di come hanno reagito al cambiamento in Texas, dove mi trovavo io. Sono un’antropologa e quindi naturalmente portata a guardare le persone dal di fuori: partendo da un’osservazione esterna arrivo all’introspezione. Hana, la protagonista del romanzo, è il prototipo delle ragazze di quel periodo, costrette a subire violenze. È un’amalgama di tutte le storie raccontate dalle sopravvissute di questa tragedia, che oggi sono ventotto: come sono state rapite, deportate e trasportate nei bordelli, cosa è successo a quelle che sono riuscite a ritrovare la via di casa, altre non sono tornate per la vergogna. Emy, la sorella, è l’incarnazione della sopravvissuta, quella donna che ha patito tantissimo ed è dovuta rimanere in silenzio, che non ha potuto raccontare la sua storia e che è riuscita a riacquisire la voce solo in un momento specifico della sua vita, quello della rivelazione, della catarsi, che poi è il momento in cui decidi di fare pace con il tuo passato e con te stessa. È un po’ quello che stanno facendo queste confort women adesso. Le sopravvissute stanno cercando di venire a patti con quello che è successo qui>>.
È un libro profondamente d’amore innestato su un percorso di violenza…
<<Hana ha fatto un sacrificio enorme per salvare la vita della sorella, che avrebbe dovuto essere catturata al suo posto dal militare. Incarna il rapporto d’amore tra una sorella maggiore e una minore, un rapporto che è di protezione. Ma questo è anche un libro sui legami famigliari, soprattutto con i genitori. Un altro focus importante del romanzo è l’accettazione che potrai non rivedere le persone che ami e Hana si ritrova di fronte a questa situazione conflittuale: da una parte la voglia di tornare a casa dall’altra la vergogna di tornare ormai stigmatizzata. Per il lettore è un libro difficile: volevo che avesse chiaro cosa significasse sopravvivere a una tragedia, e forse la prima scena cruda è quando Morimoto violenta Hana nella cabina della nave. E per quanto orribili siano le situazioni di queste ragazze non ho cercato di addolcirle, ma al tempo stesso ho provato a renderle possibili alla lettura. Ecco perché ho dettagliato le scene con certi particolari e non con altri: non volevo che fosse scambiata per una storia di rapporti sessuali perché è una storia di violenze sessuali, e non era facile riuscire a far passare il messaggio>>.
Ci sono responsabilità occidentali in questa situazione?
<<Il primo errore dell’Occidente è stato fatto dopo la seconda guerra mondiale: i vincitori hanno cominciato a preoccuparsi troppo di quello che sarebbe potuto succedere nel corso della guerra fredda e allo stesso tempo i leader giapponesi sconfitti sono rimasti al potere occupando ruoli contemporaneamente nell’esercito e nel governo. Questo ha permesso che non si condannassero le azioni criminose perpetrate dai militari giapponesi. Nessuno ha sancito in modo ufficiale le atrocità cui queste donne erano state sottoposte. Le vittime hanno avuto risonanza in molte parti del mondo solo recentemente, in particolare in America con decine di associazioni che stanno dando aiuto e visibilità alle confort women. A San Francisco si sarebbe dovuta erigere una statua nel quartiere di Chinatown per ricordarne il sacrificio, ma la decisione è stata ampiamente criticata al punto che, per vie diplomatiche, il governo giapponese l’ha ostacolata. Decisione che presa in un paese lontano come gli Stati Uniti non avrebbe recato alcun disturbo. Ma i giapponesi, come se non bastasse, hanno addirittura interrotto il gemellaggio di Osaka con San Francisco. Da questo clima di tensione si evince che le pressioni esercitate dal governo sono state estremamente gravose per cercare di nascondere quello che era successo con le donne coreane e con quelle cinesi. Nonostante sia stato creato a Tokyo un tribunale delle Nazioni Unite, il Giappone non ha ancora ammesso che si sia trattato di un crimine di guerra e quindi non c’è stato nessun risarcimento alle vittime. Per Tokyo non esistono prove, nonostante le testimonianze delle donne coinvolte e nonostante varie statue di confort women siano state erette in Corea, l’ultima di queste è seduta sull’autobus della linea 151 a Seoul. Sarà il tempo a dirci cosa succederà>>.
Oggi vi facciamo conoscere un altro nostro amico di lunga data, una di quelle persone che ha saputo starci accanto nei momenti più difficili. Perché quando l’amicizia è autentica non serve vedersi tutti i giorni, a volte il lavoro porta ad allontanarsi fisicamente da un luogo per un periodo. Ma l’amico vero sa restare tale anche nelle assenze e quando poi ci si rivede si scopre un’amicizia più forte, più salda, di quelle che bastano poche parole per capirsi. Paolo Brusin è segretario della Fondazione Francesca Pecorari. Dal vedere nascere Francesca, dall’essere uno di quegli amici appena descritti a far parte di una onlus in sua memoria non è stato facile neanche per lui. Sì, perché confrontarsi con la morte è complicato, ancora di più quando colpisce un amico, ancora di più quando travolge un giovane, quando la percepisci innaturale, brutale, un colpo tremendamente basso della vita. Non è facile reagire, non è facile attivare il meccanismo di trasformazione del dolore in qualcosa di positivo, che possa essere di aiuto agli altri. Noi ci abbiamo provato con il sostegno di questi amici silenziosi. Ed è nata nel 2003 la Fondazione Francesca Pecorari. In ricordo di una figlia. Di una sorella. Di un’amica. In ognuno di questi rapporti speciali Francesca vive ancora. Così come vive nei sorrisi di tutti quei bambini che proviamo ad aiutare dal Sud Est Asiatico all’Africa a chissà quale altra parte del mondo rivolgeremo lo sguardo.
“Ero compagno di classe di Lorena, la mamma di Francesca. Ci conosciamo dalle elementari. Sono amicizie nate sui banchi di scuola che ti porti dietro per tutta la vita”, racconta Paolo, che vive a Udine e di professione è consulente finanziario. “Alvaro l’ho conosciuto dopo, all’età di 18 anni. E gli amici sono diventati due. Dagli anni ’90 ci siamo un po’ persi di vista per colpa degli impegni di lavoro di entrambi. Ci siamo ritrovati a partire dal 2000, poco prima dell’incidente, avvenuto il 7 dicembre del 2002. Oggi sono più o meno quarant’anni di amicizia. Di loro ho sempre ammirato l’etica, i forti valori contadini alla base della vita e del lavoro, la solidità, l’unione. E ho trovato straordinario il modo di reagire alla tragedia: sempre uniti, sempre nella stessa direzione. Poi come Lis Neris fanno anche grandi vini. Potrebbe sembrare un altro discorso ma non è così, perché Fatto in Paradiso, il vino della solidarietà, è uno di questi grandi vini, creato con lo stesso amore, la stessa cura di tutti gli altri”. Paolo non ama apparire, preferisce restare dietro le quinte, a disposizione. Il suo è un profilo basso. Di chi entra in punta di piedi e non vuole disturbare. Ma il nostro racconto social, che in parte ha dinamiche diverse, non può prescindere da lui, dal suo contributo, che per noi è importante. “La sera che Francesca è nata eravamo tutti insieme. La mattina mi ha chiamato Alvaro per darmi la lieta notizia. All’epoca ci frequentavamo abbastanza spesso”. E continua: “La cosa che mi ha colpito di Francesca era la sua curiosità, doveva sempre sapere tutto. I suoi ‘perché’ ‘perché’ ‘perché’ li ho ancora impressi nella memoria. La sua era sete di conoscenza, quella sorta di ansia che appartiene alle persone più intelligenti. Già da piccola non si fermava davanti a nulla, non aveva nessun problema a interagire con il mondo. Mondo che sognava di esplorare. Ecco il suo interesse per i viaggi. In particolare uno con la famiglia le resterà dentro per sempre: in Thailandia, dove ha potuto toccare con mano la povertà materiale e intellettuale dei bambini. Lei sapeva di avere tutto rispetto a loro e questa cosa la trovava profondamente ingiusta. Era rimasta molto colpita dalla contrapposizione tra loro e noi. Così nasce il suo desiderio di stare accanto ai più indifesi, ai più piccoli. A lei piaceva fare, rendersi utile”.
“All’inizio uno pensa al futuro e mette dei ‘se’ e dei ‘ma’ perché deve capire cosa vuol fare. Ai giovani piace sperimentare, mettersi alla prova prima di trovare la propria strada. Francesca si era poi integrata nell’azienda. La bottiglia di Fatto in Paradiso, per esempio, è opera sua. Lei e la sorella erano due caratteri opposti: una esuberante, partiva; l’altra molto riflessiva. Una frenava dove l’altra spingeva. Era un rapporto che si completava. Dopo l’incidente Alvaro mi chiamò per dirmi che Francesca doveva rimanere, doveva continuare a vivere. E nacque l’idea di una fondazione. Da estimatore del mondo anglosassone mi sembrò fin da subito un’ottima cosa. In quei paesi la solidarietà è in mano ai privati, che molte volte arrivano dove le istituzioni pubbliche hanno difficoltà ad arrivare. Oggi la fondazione ha al suo attivo tanti progetti diventati realtà. Io, tramite una professoressa che allora insegnava all’Accademia di Belle Arti di Urbino, mi ero attivato per la parte relativa ai concorsi nelle scuole d’arte del Friuli: il premio si chiamava Francy for Arts. Un’altra idea molto carina nata due anni fa per volontà di Alvaro è stata quella di abbinare con dei produttori già affermati dei giovani friulani che hanno trasformato l’azienda paterna in una realtà vitivinicola. Un modo per mettere degli emergenti in contatto con aziende di un certo livello. I ragazzi sono stati entusiasti”. Conclude rivolgendo un pensiero all’amico: “Di Alvaro ammiro la voglia di fare, di costruire, il non arrendersi. Se penso all’entusiasmo, al non essere mai ferma, Francesca aveva preso molto dal padre. Sono felice di essergli vicino. Non ci vediamo moltissimo ma la distanza è relativa: quando ci ritroviamo è come se ci fossimo lasciati il giorno prima”.
Alla voce “Come partecipare” tutte le indicazioni per ricevere la nostra bottiglia di vino solidale Fatto in Paradiso.
“Essendo un’azienda familiare la nostra, faccio un po’ di tutto”. A parlare è Federica Pecorari, sorella di Francesca, la “piccola” di casa. È lei che oggi comunica Lis Neris, l’azienda di famiglia, nel mondo. “Tradizione, identità, territorio, riconoscibilità: sono i vini che parlano da soli, io mi limito a dargli voce, ad accompagnarli in un percorso che è solo loro”. Questo accade quando si punta tutto quello che si ha sulla qualità estrema, senza compromessi, applicando un’etica di vita al lavoro. Lavoro in cui una famiglia dopo la perdita di una sorella e di una figlia si è buttata a capofitto, rimboccandosi le maniche, riprogettando il percorso ma non gli obiettivi. Federica è di poche parole, come sottolinea anche lei: precisa, misurata, perfezionista. E molto concreta. “Sono io quella che viaggia, merito del mio inglese”, ci racconta. “Porto Lis Neris nel mondo, concludo i contratti, mi occupo del marketing. Siamo presenti in tutta Europa, in diversi paesi dell’Asia, in Australia, Nord America, qualche isola del Centro America. Difficile quantificarne il numero preciso. Il mio futuro? Non mi piace fare previsioni ma mi vedo qui”. Federica la incontriamo in Friuli Venezia Giulia, nella sede aziendale di San Lorenzo Isontino (Go) durante la festa di compleanno in memoria della sorella. Una festa che abbiamo raccontato su questo sito e che ha visto la presenza di diversi amici produttori con il proprio vino del cuore, ricavato devoluto alla Fondazione Francesca Pecorari. “Non ci sono vini cui mi sento particolarmente legata, non esiste quello che mi fa partire col presupposto di acquistarlo perché in Italia come all’estero c’è una varietà tale con possibilità di scelta infinite che mi rendono difficile focalizzarmi su un solo prodotto. Oggi la qualità si è alzata in maniera abbastanza uniforme in molti paesi, penso al Sud America e in particolare al Cile, dove il balzo in avanti è stato significativo, ma anche a Napa Valley in California, all’Australia e alla Nuova Zelanda. Il nostro Friuli Venezia Giulia ha un potenziale incredibile, fantastico e noi dobbiamo rimboccarci le maniche in un’ottica unitaria di marketing e comunicazione, dobbiamo farci sentire con la voce un po’ più grossa. Credo che sia solo questione di tempo”.
E poi Fatto in Paradiso, il vino il cui ricavato è destinato alle attività della onlus a sostegno dell’infanzia disagiata nel mondo. E la cui inconfondibile etichetta colorata è stata disegnata da Francesca, che sognava un vino particolare, forse che un po’ le assomigliasse, a cominciare dal nome. Probabilmente un vino che esprimesse già nei colori la gioia di vivere della sua età: il giallo, il rosso, il blu, il nero, sottrazione di tutti i colori, e il bianco, la loro somma. Sottrazione e somma quasi a significare che tutto si riduce a uno. “Fatto in paradiso è proprio un vino del cuore”, spiega Federica. “È stato creato con lo scopo di portare un sorriso alle persone, in particolare ai bambini che sono nel bisogno. È un vino che vuole trovare uno spazio suo. E per questo non andiamo a spiegarlo nei dettagli dal punto di vista degustativo e della sua composizione. È firmato da noi che ne garantiamo la qualità. Sono previsti dei varietali fissi ma ogni annata può leggermente variare”. E continua: “Centrale è la sua etichetta realizzata da mia sorella. Avevamo intenzione di fare un vino nuovo Lis Neris ed è lei che ha deciso che si sarebbe chiamato Fatto in Paradiso, come la canzone dei Queen Made in Heaven, che amava particolarmente. Purtroppo il progetto non è partito. Ma quando è successo tutto ed è nata la fondazione “lui” era già lì a chiamarci e noi abbiamo semplicemente risposto. Il dopo Francesca è stato molto duro, abbiamo cercato di trarre dal negativo qualcosa di positivo, come attribuire il valore giusto alle cose e capire ciò che veramente è importante nella quotidianità. Tutto questo per me, oggi, sono gli affetti, le passioni, che non significa mettere da parte il lavoro, che deve essere una passione altrimenti non avrebbe senso. Ma anche riuscire a dare i tempi giusti alle cose giuste, non fasciarsi troppo la testa dietro a ciò che non merita tutto il tempo che spesso gli dedichiamo”.
Francesca che in azienda aveva appena iniziato a muovere i primi passi. Francesca che stava trovando la sua strada. “Abbiamo iniziato a lavorare nel marketing all’estero quando avevamo 14 o 15 anni ed è stata una bella scuola, molto formativa. Lei aveva iniziato a sviluppare un aspetto della comunicazione un po’ più creativo, al di fuori degli stereotipi”. Continua: “Era la mia migliore amica. Essendo io timida, sapeva tirar fuori la mia parte più festosa, gioiosa. Mi ha fatto veramente da sorella maggiore, mi ha sempre aiutata in tutte le situazioni difficili. Lei era quella più estrosa, creativa, anche per questo suonava e amava la musica come la può amare chi capisce le note. Io, invece, devo avere tutto a posto”. Due sorelle, diverse ma complementari. Ed è proprio in questa diversità che probabilmente nasce la loro sintonia perfetta, l’attrazione degli opposti. L’immagine è ben espressa da Federica, che sa cogliere con un solo concetto una vita intera: “Lei era quella che lanciava per aria i fiori, io ero dietro a raccoglierli”.
Per maggiori informazioni e per sostenere i progetti della Fondazione: come partecipare.
Conosciamo pian piano gli amici di Francesca. Sono loro a condurci nel suo mondo. Oggi vi parliamo di Christian Fumagalli, amico di famiglia ma anche tra i soci fondatori della onlus. Christian è un uomo della terra e applica i valori in cui crede nella vita al lavoro. A chi gli chiede se era amico di Francesca lui risponde: “Io sono suo amico”. E questo la dice lunga sul significato della parola “amicizia”. Gli amici si scelgono, non te li ritrovi a caso al tuo fianco. E tutti noi ne vorremmo uno così: profondo nel pensiero, autentico, fedele negli anni. E misurato nelle parole come nello stile di vita. In quel “sono” si percepisce l’autenticità di un sentimento puro che non si è spento col passare del tempo e degli avvenimenti ma si è arricchito attraverso l’attività della fondazione di tanti altri “sono”, di tanti altri amici. E quindi quel “sono” oggi ha ancora un senso. “Quando è successo l’incidente stradale, in pratica a cinquecento metri da casa, l’azienda vitivinicola dei suoi genitori stava iniziando ad affermarsi sulla scena internazionale e confermava la sua solidità a livello nazionale. In quei giorni, i primi di dicembre, ci stavamo preparando a una degustazione a Tarvisio, Ein Prosit. Io l’ho saputo dai miei colleghi vigili del fuoco che l’hanno soccorsa”, racconta Christian. “Ma l’idea della onlus è nata in un secondo momento, nel 2003. Una tragedia del genere avrebbe potuto distruggere la famiglia e l’azienda, anche per via dei conflitti emotivi che inevitabilmente ci sono dietro, dei sensi di colpa, di tutte quelle domande che non trovano risposta”.
Christian è molto rispettoso in questo suo percorso a ritroso, riflessivo, sceglie con cura i termini più appropriati, evita di usare alcune parole tranchant. Nel suo discorso traspare un’idea di futuro, di positività, di bellezza.”Francesca aveva una personalità molto forte, era una ragazza spumeggiante, determinata, creativa. Voleva i suoi spazi pur non rinnegando il lavoro dei genitori. Per lei era importante avere un ruolo all’interno dell’azienda non legato alla discendenza, ma alle sue idee, alla sua testa, e per questo voleva essere riconosciuta. Come i coetanei aveva dei sogni, ma non erano strampalati, portavano insita un’idea di concretezza, sicuramente li avrebbe realizzati. Anche nel suo modo di osservare il vino, di assaggiarlo, di descriverlo c’era qualcosa di estremamente creativo: lei non si fermava alle catalogazioni, andava oltre, diceva la sua”. E continua: “La onlus nasce perché questa è una famiglia che alla base ha dei valori molto importanti, come l’amore, il rispetto, il senso del dovere, il desiderio profondo di aiutare gli altri, fondamentali per far nascere qualcosa di buono da qualcosa di estremamente brutto. Francesca è sempre stata un’adolescente sensibile a queste tematiche, in particolare ai bambini che soffrono nel mondo, sensibilità che era latente nell’animo dei suoi genitori ed ora è uscita fuori”.
Francesca che suonava in una rock band e che come la mamma Lorena, ex cantante jazz, amava la musica. Francesca che era appassionata di kick boxing. Francesca che amava viaggiare. Francesca che appena poteva passava le sue serate con gli amici. “Se nel 2018 la famiglia porta ancora avanti la onlus significa che questa non è stata solo un pretesto per metabolizzare l’accaduto, qualcosa di passeggero, ma che ci credono sul serio e per crederci devono esserci alla base quei valori fondamentali di cui abbiamo appena parlato, valori cristiani che sono la radice dell’essere umano”. Sui suoi ricordi personali commenta: “Sono tanti, tutti fotografici, e sono quelli più cari. Abbiamo frequentato il corso di analisi sensoriale dei difetti del vino e lei era molto brava, attenta, curiosa”.
CHRISTIAN FUMAGALLI è un apicoltore. Un onesto apicoltore che fa di etica e sostenibilità anche una filosofia di vita (in foto sopra, con la moglie e i tre figli). Il metodo di conduzione dell’apiario si basa sul rispetto delle api e dell’ambiente. Già il nome della sua azienda, che conduce insieme alla famiglia, rende l’idea: “Angolo di Paradiso”. E di un angolo di paradiso si tratta: belle persone, motivate, che vivono in simbiosi con la natura seguendone i ritmi. Siamo sopra Dolegna del Collio, nella frazione di Mernico, un tranquillo borgo agricolo ancora incontaminato. Questo miele è particolare perché Christian si sposta: “Seguo le fioriture, vado dove ci sono quelle più importanti, come in montagna o vicino ad appezzamenti di lavanda. Ed è particolare anche perché non prevede uno sfruttamento eccessivo degli alveari. Raccogliamo quello che avanza e lo trasferiamo dal favo al vasetto così com’è, un nettare purissimo”. E aggiunge: “Lo stato di salute delle api è fondamentale per l’ecosistema: se mancano, non abbiamo l’impollinazione, i fiori, le piante, i frutti…”. Miele italiano da valorizzare non foss’altro per le difficoltà in cui gli apicoltori- artigiani si trovano ad operare. “La mia è una piccola realtà, ho tre figli ma l’attività non ha le caratteristiche per poterli trainare economicamente”. Conclude: “È questa mia grande passione per l’agricoltura che ha cementato l’amicizia con la famiglia di Francesca, questo profondo rispetto per la terra che abbiamo in comune. Cosa ammiro di loro? Che camminano tutti nella stessa direzione perché si sentono ancora una famiglia”.
“Secondo un antico proverbio ebraico se salvi un uomo salvi tutta l’umanità. Io faccio quello che posso. Ma come diceva Einstein, conosco una sola razza, la razza umana”. Inizia così, con queste riflessioni sul senso della vita e della fratellanza, la nostra intervista a uno dei più bravi attori di teatro in circolazione, Gioele Dix. Anche bravo scrittore, l’ultimo libro è “Dix Libris. La mia storia sentimentale della letteratura” (Rai Eri), dove l’autore con un velo di ironia racconta le letture che dall’adolescenza ad oggi hanno contribuito a formarlo prima di tutto come essere umano. “Alcuni libri – i più preziosi – mi hanno fatto ridere. Altri mi hanno aiutato a capire, i più rari”, dice. “È difficile che un libro dia delle risposte, al massimo regala delle conferme”. Qui ci soffermiamo su uno degli aspetti meno conosciuti del personaggio: la solidarietà. Quel suo convinto “io faccio quello che posso, l’importante è fare” è contagioso. Sprigiona a sua volta voglia di fare, positività, concretezza. Ha potere aggregante. Quante volte sentiamo ripetere nella cerchia dei nostri amici o conoscenti “se lo fa lui lo posso fare anche io, lo voglio fare anche io”. Perché il bello di essere personaggi consiste nel dare il buon esempio, che a sua volta sarà imitato. Anche noi con la Fondazione Francesca Pecorari ci occupiamo di progetti umanitari legati all’infanzia nel mondo e lo facciamo con uno spirito di apertura e condivisione anche di esperienze e testimonianze di altre realtà con obiettivi condivisi. Perché c’è tutto un mondo della solidarietà vibrante di idee e di vita che merita attenzione. “Non conoscevo la vostra fondazione, adesso sì. Ci sono tante cose da fare nel mondo, c’è tanta ma tanta gente che ha veramente bisogno e qualcuno se ne deve pur occupare. L’importante non è chi lo fa ma farlo”, ci dice Gioele Dix (che nella foto di copertina posa con la nostra bottiglia di vino solidale Fatto in Paradiso). “In Friuli Venezia Giulia, a Sequals, ho svolto il servizio militare. È una bellissima zona, di grande tradizione vitivinicola”.
Gioele Dix che nel libro “Quando tutto questo sarà finito. Storia della mia famiglia perseguitata dalle leggi razziali”, racconta, andando oltre l’autobiografia, la vicenda di una famiglia ebrea costretta alla fuga. Come il padre, ebreo in fuga. Gioele Dix che mostra una grande attenzione e un grande rispetto per i temi sociali. Partendo dal rispetto di se stesso e del prossimo. “Quando si è conosciuti si è considerati fortunati e si è molto richiesti. Si pensa che si debbano aiutare le persone più disagiate, e questo è giusto che avvenga. In particolare, da molti anni mi sono focalizzato su una realtà, perché sono convinto che se si fa un po’ per tutti alla fine non si aiuta nessuno, ci si disperde. Io ho conosciuto gli amici e le amiche del Ciai, una onlus che si occupa di bambini, di adozioni a distanza. Sono milanesi, in piedi ormai da diversi decenni e sono loro che hanno adottato me. L’anno prossimo dovrei andare in Cambogia a vedere una delle loro, chiamiamole, missioni, anche se sono dei laici”, ci racconta Gioele. “Per me conta che siano brave persone, molto serie e credibili in quello che fanno. D’altronde qualcuno dovrà aiutarli questi bambini abbandonati, dispersi, soli. E non ha importanza che siano del nostro o di altri paesi, il dolore non ha frontiere e se tu fai del bene da qualche parte, prima o poi ti ritornerà, perché il bene è contagioso”.
Il Ciai è il Centro Italiano Aiuti all’Infanzia, che quest’anno ha da poco più di un mese celebrato i suoi primi cinquant’anni di attività. Loro sono stati i primi in Italia a fare adozioni internazionali attraverso una prassi poi riconosciuta per legge. Il Ciai ha lavorato con tanti paesi: Colombia, Cambogia, Burkina Faso, Costa d’Avorio e India. Tra le fondatrici Liliana Gualandi e il marito: insegnante lei, giudice onorario del tribunale dei minori di Milano lui. Tutto ebbe inizio nel 1968 grazie alla sensibilità e all’operosità di un gruppo di famiglie che decisero di accogliere al loro interno bambini abbandonati di paesi lontani, perché, come dice Liliana Gualandi, “i bambini soli sono bambini soli in tutto il mondo”. Da lì è stato costruito un percorso in salita. Altra figura di spicco del Ciai è Valeria Rossi Dragone, due volte mamma adottiva e presidente della onlus per ben ventiquattro anni, dal 1987 al 2011.
Il senso della vita, la morte, il tempo, l’idea del tempo infinito, concetti chiave che ritroviamo nel mondo del volontariato e che aprono a più interrogativi, sono stati indagati insieme ad altri più specifici come il destino, la casualità, la possibilità di mondi e strade parallele dallo scrittore argentino Jorge Borges e ripresi nello spettacolo teatrale Cata a Ciegas da Giole Dix, che impersona uno straordinario Borges giunto al termine della propria vita. “Ci sono un’infinità di percorsi paralleli che derivano dalle decisioni che non abbiamo preso. Alcune cose succedono perché è casuale”. E conclude: “Noi siamo quello che leggiamo e che non leggiamo. La lettura mi ha aiutato a capire meglio la vita, ciò che per fortuna o sfortuna ci accade. Ma ogni individuo, nel solco di Eugenio Montale, si costruisce anche attraverso quello che non fa, che non legge, che non pensa o le persone che non frequenta: attraverso le negazioni. Molto spesso il non fare una cosa ci qualifica molto di più del farne un’altra”.