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A TU PER TU CON MARY LYNN BRACHT

by Redazione

Quando la Fondazione Francesca Pecorari è nata, nel 2003, l’obiettivo era rivolgere lo sguardo al Sudest asiatico, in particolare al Myanmar (ex Birmania), un paese che con le sue criticità politiche, sociali, culturali e i suoi oltre cento gruppi etnici aveva profondamente scosso Francesca durante uno dei suoi viaggi. Nei villaggi, soprattutto al confine con la Cina, abitati da tribù isolate e pericolose è estremamente complicato realizzare un progetto educativo per strappare i bambini da un futuro scontato: mercato degli organi da una parte, furti, criminalità e prostituzione minorile dall’altra. Ne parliamo con la scrittrice Mary Lynn Bracht, che ci fornisce uno spaccato della vita delle donne in un particolare periodo storico: la guerra di Corea del 1943. Nata in Texas da madre sudcoreana è autrice de Figlie del mare (Longanesi), best seller d’esordio tradotto in oltre diciotto paesi. Da Londra, dove vive, il suo sguardo sulla Corea e sul Sudest asiatico è estremamente realistico, crudo e mostra crepe non ancora sanate nel regime politico e culturale di questi paesi svelando una tragedia sconosciuta ai più: la guerra di Corea del 1943 e il dominio giapponese (che andava avanti dal 1905). La Bracht è cresciuta a stretto contatto con una comunità di donne emigrate dalla Corea del Sud. È proprio durante un viaggio nel villaggio dove nacque la madre che sentì parlare di confort women, del silenzio e della vergogna di donne vittime innocenti, della schiavitù sessuale. Ne uscirà un romanzo con protagonisti due sorelle, un soldato e una vita di abusi senza nessuna via di scampo: Hana, che vive in una società matriarcale dove è la donna a pensare al sostentamento della famiglia, viene catturata dai soldati giapponesi, deportata in Manciuria e imprigionata in una casa chiusa gestita dall’esercito. Il suo sogno tornare ad essere libera. “Il desiderio di queste ragazze strappate alle loro famiglie, che dall’oggi al domani non le vedevano più, era farla finita. Molte si suicidavano, se non morivano prima per malattie, per sottrarsi agli abusi”, racconta la Bracht. White Chrysanthemum è il titolo originale del libro, perché la madre di Hana gettò in mare proprio un crisantemo bianco, come si usa con i morti, quando la figlia fu rapita. Una situazione che fa capire quanto l’istruzione ovunque, ma soprattutto in questi paesi sia considerata come un diritto alla vita oltre che della vita. Un’istruzione scolastica che in Corea del Nord è politicamente orientata e vede il forte divario fra aree rurali povere e le grandi città. L’intervista offre spunti su cui riflettere. Della recensione del libro ne parleremo sul settimanale Famiglia Cristiana

Un libro-testimonianza per i giovani?

<<Volevo raccontare la guerra dal punto di vista delle donne per far capire, questo l’intento ambizioso, cosa avesse significato e significhi per loro la guerra, sopravvivere alla tragedia e la resilienza, offrendo uno spaccato della loro condizione in quel tempo. Sui libri si parla spesso di politica e di economia tralasciando l’aspetto femminile della vicenda: le donne hanno sopportato un peso enorme e hanno contribuito alla ricostruzione morale del paese. Un peso che per molto, troppo tempo si è taciuto. La mia motivazione principale era che non si perdesse il ricordo di quello che era successo durante la guerra a queste ragazze, molte erano bambine o poco di più, che non fossero dimenticate, che il loro vissuto non venisse buttato via con un colpo di scopa dalla storia che studiamo. L’obiettivo era parlare delle schiave sessuali per fare in modo che non uscissero dalla storia della Corea. Un modo romanzato per farci ricordare un fatto che se leggessimo solo sui libri tenderemmo a dimenticare. Qui ci focalizziamo su un aspetto che sui testi scolastici non è preminente, ma nella vita di queste donne lo è stato, eccome. Se insieme a tutto questo il mio romanzo serve anche come memoria e testimonianza per i giovani, lo considero un bel regalo. L’istruzione oggi è fondamentale per ripartire con un nuovo slancio>>.

Esiste una traduzione coreana de Figlie del mare? Glielo chiedo perché sarebbe buona cosa far entrare il romanzo nelle scuole…

<<Lo stanno traducendo ora. Molti giovani sono lontani dalla storia e, per ragioni anagrafiche, dalle dinamiche della guerra. Questo libro potrebbe arrivare dove un testo scolastico non riuscirebbe mai: a scuotere le coscienze, a creare una sorta di immedesimazione, a mostrare tutto l’orrore dell’occupazione giapponese. La sua funzione didattica in Corea e nei paesi connessi con la Corea sarebbe una vittoria per intere generazioni di donne. Moltissimi studenti di varie università in Inghilterra, in particolare a Londra, che sono coreani e si occupano di studi asiatici, la pensano come lei, ossia della necessità di un libro che possa servire come testo per imparare la storia, quella non raccontata>>.

Quanto ha influito nella stesura la comunità coreana in cui è cresciuta?

<<Il libro non sarebbe stato così realistico, crudo. Sono cresciuta in un ambiente pieno di donne come la mamma: erano sudcoreane, tutte avevano sposato militari americani. Ero immersa in questa cultura della sopravvivenza, della forza di donne che non avevano alcun tipo di possibilità nel loro paese perché erano le ragazze del dopoguerra di Corea, donne che si trovavano in un paese nel pieno della ricostruzione ma anche vittima di una dittatura molto dura dove non esisteva la libertà e non c’era spazio per le ragazze povere. Le persone come mia mamma sono state costrette a lasciare la loro patria, vuoi per indigenza vuoi perché volevano scoprire il resto del mondo: è così che sono diventate donne forti, motivate, si sono ricostruite una vita da un’altra parte. Questa loro forza mi ha sempre ispirata: da bambina ero molto interessata ad ascoltare la storia della loro infanzia rurale e di come hanno reagito al cambiamento in Texas, dove mi trovavo io. Sono un’antropologa e quindi naturalmente portata a guardare le persone dal di fuori: partendo da un’osservazione esterna arrivo all’introspezione. Hana, la protagonista del romanzo, è il prototipo delle ragazze di quel periodo, costrette a subire violenze. È un’amalgama di tutte le storie raccontate dalle sopravvissute di questa tragedia, che oggi sono ventotto: come sono state rapite, deportate e trasportate nei bordelli, cosa è successo a quelle che sono riuscite a ritrovare la via di casa, altre non sono tornate per la vergogna. Emy, la sorella, è l’incarnazione della sopravvissuta, quella donna che ha patito tantissimo ed è dovuta rimanere in silenzio, che non ha potuto raccontare la sua storia e che è riuscita a riacquisire la voce solo in un momento specifico della sua vita, quello della rivelazione, della catarsi, che poi è il momento in cui decidi di fare pace con il tuo passato e con te stessa. È un po’ quello che stanno facendo queste confort women adesso. Le sopravvissute stanno cercando di venire a patti con quello che è successo qui>>.

È un libro profondamente d’amore innestato su un percorso di violenza…

<<Hana ha fatto un sacrificio enorme per salvare la vita della sorella, che avrebbe dovuto essere catturata al suo posto dal militare. Incarna il rapporto d’amore tra una sorella maggiore e una minore, un rapporto che è di protezione. Ma questo è anche un libro sui legami famigliari, soprattutto con i genitori. Un altro focus importante del romanzo è l’accettazione che potrai non rivedere le persone che ami e Hana si ritrova di fronte a questa situazione conflittuale: da una parte la voglia di tornare a casa dall’altra la vergogna di tornare ormai stigmatizzata. Per il lettore è un libro difficile: volevo che avesse chiaro cosa significasse sopravvivere a una tragedia, e forse la prima scena cruda è quando Morimoto violenta Hana nella cabina della nave. E per quanto orribili siano le situazioni di queste ragazze non ho cercato di addolcirle, ma al tempo stesso ho provato a renderle possibili alla lettura. Ecco perché ho dettagliato le scene con certi particolari e non con altri: non volevo che fosse scambiata per una storia di rapporti sessuali perché è una storia di violenze sessuali, e non era facile riuscire a far passare il messaggio>>.

Ci sono responsabilità occidentali in questa situazione? 

<<Il primo errore dell’Occidente è stato fatto dopo la seconda guerra mondiale: i vincitori hanno cominciato a preoccuparsi troppo di quello che sarebbe potuto succedere nel corso della guerra fredda e allo stesso tempo i leader giapponesi sconfitti sono rimasti al potere occupando ruoli contemporaneamente nell’esercito e nel governo. Questo ha permesso che non si condannassero le azioni criminose perpetrate dai militari giapponesi. Nessuno ha sancito in modo ufficiale le atrocità cui queste donne erano state sottoposte. Le vittime hanno avuto risonanza in molte parti del mondo solo recentemente, in particolare in America con decine di associazioni che stanno dando aiuto e visibilità alle confort women. A San Francisco si sarebbe dovuta erigere una statua nel quartiere di Chinatown per ricordarne il sacrificio, ma la decisione è stata ampiamente criticata al punto che, per vie diplomatiche, il governo giapponese l’ha ostacolata. Decisione che presa in un paese lontano come gli Stati Uniti non avrebbe recato alcun disturbo. Ma i giapponesi, come se non bastasse, hanno addirittura interrotto il gemellaggio di Osaka con San Francisco. Da questo clima di tensione si evince che le pressioni esercitate dal governo sono state estremamente gravose per cercare di nascondere quello che era successo con le donne coreane e con quelle cinesi. Nonostante sia stato creato a Tokyo un tribunale delle Nazioni Unite, il Giappone non ha ancora ammesso che si sia trattato di un crimine di guerra e quindi non c’è stato nessun risarcimento alle vittime. Per Tokyo non esistono prove, nonostante le testimonianze delle donne coinvolte e nonostante varie statue di confort women siano state erette in Corea, l’ultima di queste è seduta sull’autobus della linea 151 a Seoul. Sarà il tempo a dirci cosa succederà>>.

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